La lirica, composta da 15 endecasillabi sciolti, apparve la prima volta nel 1825, pubblicata in una rivista bolognese, e subito dopo venne inclusa nell'edizione dei Versi del 1826, come parte di una serie di sei Idilli (tra cui altri celebri componimenti come Alla luna e La sera del dì di festa).[1] Il termine greco "idillio" (εἰδύλλιον), di solito riferito a componimenti poetici incentrati sulla descrizione di scene agresti, subisce, con Leopardi, una ridefinizione: negli idilli leopardiani è assente la tematica bucolica propria dei componimenti scritti dai poeti greci Teocrito, Mosco, Bione, e latini (Virgilio, Calpurnio Siculo e Nemesiano), poi imitati in età umanistica e rinascimentale da Jacopo Sannazaro e da Torquato Tasso.
L'idillio leopardiano è un componimento connotato da un forte intimismo lirico: in esso l'elemento del paesaggio naturale (spesso privo dei connotati del paesaggio ideale antico) è strettamente legato all'espressione degli stati d'animo dell'uomo. Tale espressione del proprio io non vuole essere una fuga nell'irrazionale o nel sogno (come accade nella lirica romantica), ma solo occasione di un'ampia riflessione sul tempo, sulla storia e sul triste destino degli uomini. Negli idilli leopardiani, inoltre, colpisce l'abile e sapiente mescolanza di registri linguistici che spaziano da quello letterario (Ermo colle) a quello semplice, piano e colloquiale (Sempre caro). Questo idillio si divide in due parti ben distinte: nella prima il poeta esprime concetti a lui usuali mentre, nella seconda, usa l'immaginazione e si perde nell'infinito.